Roba da sogno

Tradotto da Aldo Carpanelli

 

«Se diventa eccessivo» mi disse Matheson, «puoi uscirne in un batter d’occhi. Così.»

Strinse i pugni e raccolse le braccia ad X sul petto. Col camice bianco e i capelli in disordine sembrava pronto per un incontro di karate.

«Incrocia le braccia, abbassa la testa e ne sarai fuori. È come una posizione fetale, solo che sei in piedi. Non so come, ma funziona.»

«Cosa intendi con “eccessivo”?»

Matheson fece spallucce. «Dovrai capirlo da te. Non stiamo parlando solo di luci e colori. Il mondo nel quale finirai sarà del tutto nuovo, anche se sarà solo nella tua testa. Ogni volta che prenderai la roba diventerà più realistico. Avrà la sua gente, le sue regole, ogni cosa. Potresti ritrovarti in una situazione dalla quale voler uscire, tutto qui. Diamine, non ti è mai capitato di voler venir fuori da un viaggio acido?»

Annuii, osservando il borsellino di plastica che mi aveva passato. Era come una confezione di medicinali, con cinque dosi e una piccola siringa. L’aveva chiamata Adonina.

«E non ne sai proprio nulla?»

Matheson scosse il capo con impazienza. Eravamo nel mezzo dell’ingresso, proprio accanto all’infermeria, e potevo ben capire perché fosse a disagio. «La settimana scorsa ho mandato un campione alla FarmaChimica», disse. «Dovrei avere i risultati dell’analisi tra un paio di giorni. Questo dovrebbe rispondere ai tuoi quesiti.»

Stavo solo cercando delle scuse e lo sapevo. Dovevo prendere servizio e neppure io volevo essere beccato per spaccio, per cui diedi venti euro a Matheson e intascai il pacchetto.

Mettendo via i soldi, Matheson mi fece l’occhiolino e promise: «Non te ne pentirai. È una vera bomba.»


Quella notte fu la prima volta.

Chiusi le persiane sulla neve che cadeva leggera e mi sedetti sul bordo del letto. Tutto l’occorrente era schierato in bell’ordine sul comodino, ma non avevo ancora deciso se provare o no.

Per Matheson era una cosa, per me un’altra. Matheson non temeva le droghe, aveva perfino assunto irregolarmente eroina per diversi anni. Io avevo provato la roba che gira per i licei e, una volta entrato all’università di medicina, avevo fatto occasionalmente ricorso alla metanfetamina al mattino e al Valium alla sera, ma mai al punto da diventarne dipendente. Inoltre non m’era mai piaciuto piantarmi addosso degli aghi.

Ma Matheson aveva detto che quella che avevo tra le mani era roba speciale e comunque, da quando Sarah se n’era andata, niente faceva una vera differenza. Avevo perso interesse per tutto, e un qualche tipo d’azione disperata poteva anche starci. Compresa questa.

Lo stantuffo si innestò agevolmente nella siringa e la guaina di plastica venne via dall’ago con una semplice pressione dell’unghia. Annodai il laccio emostatico e strinsi il pugno sinistro. Qualche colpetto all’interno del gomito e la vena era lì, turgida e blu.

Disinfettai, ed il tocco dell’alcol mi raggelò tutto il braccio. Quando sollevai la siringa in controluce, la droga argentea sembrò scorrere come un globo di mercurio. Espulsi l’aria con cura e osservai la prima goccia scendere lungo l’ago.

Il braccio cominciava ad intorpidirsi. Dovevo decidermi. Stringendo i denti, spinsi l’ago in vena. Subito alcuni anelli di sangue si contorsero nel liquido argenteo. Quella vista mi fece star male, ma spinsi lo stesso a fondo lo stantuffo.


La città si estendeva di fronte a me come un set cinematografico abbandonato. Bassi edifici bianchi, alcuni dotati di cupole e piccole torri, occupavano un vasto pianoro per poi arrampicarsi a mezzo su un colle nei pressi. Ogni cosa aveva un aspetto incompleto, come una bozza o un approssimativo modello di cartone.

Mi guardai lentamente intorno. Più indietro, un sentiero si perdeva in una foresta rada. Ai lati, un’ampia strada deserta correva ininterrottamente verso l’orizzonte. L’attraversamento pedonale in muratura davanti al quale mi trovavo la sovrastava di circa sei metri.

L’aria aveva un sentore fresco e pulito, simile a quello della biancheria asciugata al sole. Mi sentivo leggermente su di giri ma avevo la mente limpida, ben cosciente che l’esperienza che stavo vivendo era un qualche tipo di sogno. In quel momento, non sembrava importante.

Niente si muoveva. La strada era inutilizzata, i marciapiedi erano vuoti, perfino il cielo azzurro pallido era completamente privo di nubi. Guardando con più attenzione risultava ovvio che nessuno aveva mai vissuto in quella città. Non così com’era ora, almeno. Quelle che ad una prima occhiata erano sembrate porte e finestre non erano che rientranze nei muri che non si aprivano su nulla.

Mi avvicinai al muro del cavalcavia e lo toccai. Cedette un poco sotto le dita, come gommapiuma. Provai a fare un paio di passi di prova sull’attraversamento, che parve reggere piuttosto bene il mio peso. Dall’altra parte, uno stretto sentiero portava verso il centro città.

Camminando adagio lungo il percorso mi accorsi di quanto tutto fosse gradevole. La sensazione evocava un deja vu, ma senza alcun tono inquietante. Mi sentivo abbastanza certo d’aver già sognato qualcosa di simile in precedenza, magari d’aver pure vissuto in una città come quella, da bambino. Qualunque fosse la ragione, mi sembrava di saper già la strada e quel che avrei visto dietro ad ogni angolo. Inciampai una volta, finendo contro il muro d’un palazzo. Gli abiti di cotone leggero che indossavo non ne risentirono, ma l’impatto contro la spalla si fece sentire nettamente. Tanta concretezza mi sorprese e m’indusse a fermarmi ed a darmi un pizzicotto, proprio come ci si aspetta che uno faccia in un sogno. Nonostante il dolore, nulla cambiò nella città che mi circondava. Pensai che se il dolore era reale, poteva essere reale anche il danno. Forse era quel che intendeva Matheson con “eccessivo”.

Mi sembrava di camminare ormai da tre o quattro ore almeno. Nonostante non ci fosse nulla da vedere, a parte il monotono susseguirsi di edifici bianchi e strade anguste, la noia m’era completamente estranea. Non mi stancavo neppure fisicamente, né sentivo fame o sete. Il mio corpo dava l’idea di funzionare come una macchina perfettamente a punto.

Tutto finì improvvisamente. Fui preso da un capogiro e mi appoggiai ad un muro per sostenermi. Le mani si fecero trasparenti sotto i miei occhi e, guardando in giù, vidi le gambe scomparire poco a poco. Un attimo dopo mi ritrovai nel letto, esausto e disorientato ma sveglio.

Rimasi steso per un paio di minuti e finii per accorgermi che stavo fissando la sveglia. Ci volle un po’ perché mi accorgessi che il tutto era durato solo un’ora di tempo reale.

Mi alzai per bere e mi resi subito conto che non sarei riuscito a riaddormentarmi. Con trenta milligrammi di Dalmane mi dissolsi nel sonno nel giro di mezz’ora.


«Fantastico», dissi a Matheson il giorno successivo. Stavamo mangiando al bar, ma non avevo un gran appetito. Nonostante il Dalmane mi tenesse rilassato con la sua lunga emivita, risentivo ancora dell’eccitazione della notte precedente. «Voglio dire, non è successo proprio un bel niente, ma le sensazioni avevano dell’incredibile!»

«Certo», disse Matheson, col sorriso deformato da una contrazione improvvisa. Stava giocherellando nervosamente con le posate e i suoi occhi erano iniettati di sangue. «È così perché quella città è come… diciamo… un modello del tuo subconscio. Se potessi fare un modello in tre dimensioni di quel che ti passa per la testa, quello è l’aspetto che assumerebbe. Ecco perché ti senti tanto a tuo agio, laggiù.»

«Tu vai nello stesso posto?»

«No. Per me è qualcosa di più… primitivo. Qualcun altro potrebbe trovarsi su una spiaggia, o in un paese dell’Ohio. Quella roba attinge in qualche modo ai tuoi ricordi, ai tuoi sogni, o qualcosa del genere.»

«Dove l’hai presa?»

«Ricordi Davis, Quell’interno che è appena stato trasferito al St. Maria? Me l’ha data lui.»

«E lui dove l’ha presa?»

Matheson sorrise di nuovo in quel suo modo teso. Cominciavo a preoccuparmi. «Penso che non se la prenderà se te lo dico. Una sera Davis m’ha fatto conoscere un tale, in birreria. Uno che si fa chiamare Smith. Un tipetto strano, basso e tracagnotto, con un bel po’ di ciccia intorno al collo e un colorito grigiastro. Non so da dove diavolo salti fuori.»

«Si fa anche lui?»

«E chi lo sa? Tutta la roba che ho visto proviene da lui, alla fin fine. Chiediglielo tu, se vuoi. Lo puoi trovare in quella birreria due o tre volte alla settimana.» Lo sguardo di Matheson continuava a dardeggiare, mentre sulla sua forchetta stava infilzato da due minuti lo stesso pezzetto di cibo.

«Che si sa in merito a…» annaspai in cerca della parola giusta, «…agli effetti collaterali?»

«Blake, ti preoccupi troppo.»

«Non è una gran risposta.»

«Be’, c’è un certo margine di rischio. Ogni cosa è almeno un po’ rischiosa.»

«Qual è il rischio connesso a questa particolare cosa, nello specifico?»

Matheson si strinse nelle spalle, disse «Dipendenza» e guardò il cibo abbastanza a lungo da decidersi a mettere in bocca quello che aveva sulla forchetta. «Ma non è una cosa grave come la vuoi dipingere. Se uno vuol smettere, può smettere.»

Bene, pensai. Quanti tossicomani conosco che non fanno altro che ripetere che non sono dipendenti dalla droga?

«Ho avuto dei problemi a prender sonno, l’altra notte. Sai, dopo il viaggio», dissi.

Matheson annuì. «Sì, succede. Prendi del Valium o qualcosa del genere. Andrà tutto a posto.»

Non riuscivo a capire cosa non andasse in Matheson ma, dopottutto, non avevo dormito abbastanza e provavo un’irritabilità di fondo che sarebbe potuta benissimo derivare dal dissolversi dell’effetto del Dalmane. Forse ero io quello fuori posto.


Il caldo umido che proveniva dai radiatori dava all’ospedale un odore antico, acido. Una delle lampade fluorescenti dell’infermeria lampeggiava tanto rapidamente da rendere quasi subliminale l’effetto irritante. Quando presi servizio, quel pomeriggio, i corridoi sembravano gallerie anguste e sporche. Pure i volti delle infermiere parevano anonimi e vacui. In qualche modo riuscii a superare la giornata e convinsi Matheson a coprirmi in caso quella notte ci fosse stato bisogno di me.

Tornato all’appartamento la stanchezza m’assalì. Decisi che dovevo dormire di più. Se avessi preso la droga di buon’ora avrei avuto più tempo per recuperare, prima di dover tornare in ospedale.

Mangiai un poco, quasi per abitudine, e feci una doccia. Quindi andai a letto e mi sparai in vena un’altra dose di Adonina.


La città stava prendendo vita.

Il processo non era ancora completo, ma le finestre e le porte stavano diventando reali e potevo percepire dei movimenti all’interno degli edifici. L’azzurro del cielo s’era fatto più intenso, e per la prima volta mi accorsi dell’assenza del sole: era come un’immensa cupola dal colore uniforme.

Nell’aria c’era come una sensazione di freschezza che si poteva cogliere senza realmente percepirla, come in primavera o di prima mattina. Potevo scorgere dei movimenti appena fuori dal mio campo visivo e sentire le increspature di lontane conversazioni prive di parole.

Camminavo in discesa, verso il centro della città. Nessuna di quelle persone fantasma si avvicinava a più di venti metri da me, e quelle più lontane erano sfocate come in una foto scattata con mano malferma. Potevo vedere che indossavano abiti larghi come i miei, ma quello era il solo dettaglio che riuscissi a cogliere.

Nel centro della valle la strada si divideva: un ramo conduceva verso le colline alla mia sinistra, l’altro proseguiva diritto. Al centro della Y era cresciuto un piccolo parco desolato, con tanto di panchine e alberi senza fogliame, che la notte precedente non c’era. Il terreno aveva lo stesso colore della sabbia d’un campo da baseball, ma era secco e compatto.

Mi sedetti e chiusi gli occhi, chiedendomi cosa sarebbe accaduto se mi fossi addormentato. Avrei sognato nel sogno?

Ma il sonno non venne, così provai a controllare l’esperienza che stavo vivendo. Concentrandomi, tentai di far avvicinare una delle persone, ma non ci riuscii. Non accadde nulla neppure quando mi sforzai di indurre cambiamenti negli edifici o negli alberi. O la conformazione della città proveniva direttamente dalla droga, o era radicata in qualche livello inconscio della mia mente.

La mia curiosità scientifica non durò a lungo. In quella città sembrava irrilevante, come ogni altra cosa che avesse a che fare col mondo reale. Mi alzai e ripresi a camminare, a mala pena consapevole che in realtà stavo cercando qualcosa. Seguii la strada che attraversava la valle, osservando gli edifici. Non prestavo molta attenzione alle persone sfocate, anche se sembrava che col passar del tempo ci fosse sempre più gente.

Le case, prese una per una e isolate da quel contesto architettonico confuso, avevano un aspetto familiare. Il terreno ai lati della strada saliva man mano che ci si allontanava dal centro della città, e fu su una di quelle basse colline che vidi una casa che ero certo di conoscere. Era una casa di due piani, bianca come tutte le altre ma con un cornicione squadrato che circondava l’intero edificio. Da lontano, il pendio che conduceva alla casa aveva un aspetto roccioso ma, avvicinandosi, risultò che era costituito dalla stessa sostanza dura ed uniforme già vista nel parco.

Mi sedetti ad aspettare, senza ben sapere perché. Dopo quella che mi sembrò mezz’ora, una figura umana si staccò dalla folla e cominciò a salire lungo la scala che conduceva alla casa.

Era una donna, ed era un po’ più a fuoco di chiunque altro avessi visto fino a quel momento. Benché non l’avessi mai incontrata prima, m’era familiare come il mio riflesso allo specchio. Occhi e capelli d’un castano polveroso, come il pendio dietro di lei. Spalle e fianchi larghi, ma vita sottile e seni contenuti.

Giunta in cima alle scale si voltò e mi guardò per un tempo appena sufficiente a farmi capire che m’aveva visto. Quindi passò oltre ed entrò nell’edificio.

L’attesi fuori. Senza nubi e sole che si muovessero nel cielo, non avevo il senso dello scorrere del tempo. Quando uscì, presi a seguirla.

Aveva lo stesso passo fluido ed elusivo degli altri abitanti della città, e faticavo a tenerle dietro. Sempre più gente affollava i marciapiedi, singolarmente o a coppie, e non si tenevano più a distanza. Per restare in vista della donna dovevo intrufolarmi tra di loro quasi di corsa. Continuò a guadagnar terreno, e la persi quando due persone si misero in mezzo, uscendo da un palazzo proprio mentre passava.

Era sparita senza lasciar traccia, pur non essendoci alcun vicolo o androne nei paraggi. Feci due volte il giro dell’isolato e, una volta certo che non l’avrei ritrovata, tornai al parco.

Vederla aveva suscitato in me delle sensazioni. Qualcosa di sensuale ma anche un desiderio più profondo che non riuscivo a definire con chiarezza. Mi sedetti su una panchina. Dopo un po’ le cose sembrarono flettersi di lato e tutto finì.


Anche quella volta l’esperienza era durata un’ora, sebbene il tempo soggettivo fosse stato ancor più lungo della notte precedente. Ero irrigidito dalla fatica, e quando mi alzai per prendere un po’ di Valium la stanza compì un lento giro su se stessa.

Mandai giù due compresse da cinque milligrammi e tornai a letto. Dopo un’ora ero ancora sveglio. Il mondo sembrava sfocato e distante ed io mi sentivo a pezzi come un bimbo esausto. Presi cinquecento milligrammi di Placidyl, rimandando al mattino successivo il problema del risveglio.


Aveva nevicato tutta la notte e le strade erano sepolte da una neve acquosa. Mettere le catene all’auto fu una lotta di volontà che rischiai di perdere. Andando all’ospedale tenni al massimo il riscaldamento della mia piccola Volkswagen ma neppure così riuscii a scaldarmi.

Durante la riunione mattutina tenni d’occhio Matheson. Era in pessima forma, con occhi appannati e nervosi come se si fosse fatto d’anfetamina per un’intera settimana. Il primario stava presentando un caso di overdose da antidepressivi triciclici e ne ero annoiato a morte. Il mio sguardo continuava a vagare da Matheson, ai muri ingialliti, all’impiallicciatura consunta del tavolo delle conferenze.

Si fece tardo pomeriggio prima che riuscissi a incontrare Matheson da solo, ed anche allora era così distratto che feci fatica ad ottenere la sua attenzione. Il suo comportamento era irritante, ma il Valium residuo mi permise di non prendermela troppo. Alla fine riuscii a convincerlo a sgattaiolare in birreria per alcuni minuti. Prendemmo i cappotti e li indossammo in fretta e furia mentre l’ascensore ci portava al piano terreno. Lo colsi mentre mi osservava.

«Ipotermia?» chiesi.

Annuì. «Quando ne esco mi prende sempre la febbre. Il giorno dopo posso arrivare a trentacinque gradi.»

Il bar era dall’altra parte della strada e attraversammo a metà isolato. Cumuli di neve sporca assediavano i bordi del marciapiede.

«Da quanto la stai prendendo?» gli chiesi.

«Una settimana e mezzo.»

«Ogni notte?»

Mi guardò in modo strano, quindi distolse lo sguardo. Annuì.

La birreria era affollata. Pareva che tutti, dai tirocinanti dell’università ai veterani più anziani, si fossero dati appuntamento lì, e i tavoli erano più stipati di barconi carichi di rifugiati. In piedi con Matheson accanto al bancone tentai di isolarmi dal vocìo e dal fumo delle sigarette. Avevo la nausea, ma ordinai lo stesso una birra. Matheson non voleva niente.

Guardai nel fluido ambrato e schiumoso per un minuto buono, quindi sbottai, «Ti senti bene?»

«Credo d’essere un po’ irritabile. Sì, irritabile. Perché?»

«Hai un aspetto schifoso. Credo che la droga ti stia facendo a pezzi.»

«Non è nulla, non è nulla. Nient’altro che un po’ d’eccitabilità di rimbalzo.»

Guardò le sue mani che tambureggiavano qualche strano ritmo sul bancone, come se non fossero neppure le sue. . «Inoltre, ne vale la pena.»

Improvvisamente si voltò e prese a fissare qualcosa dall’altra parte della stanza. Disse con calma, «Ecco Smith.»

Seguii il suo sguardo e lo vidi. Era lui, senza dubbio. Era troppo scuro per essere un tipo mediterraneo, ma aveva una sfumatura grigio-verdastra che non avevo mai visto in un africano. Testa a forma di proiettile, completamente calva. Un collo che ricordava un millefoglie disordinato. Occhi piccoli e porcini che sembravano rotolare avanti e indietro tra le persone con le quali stava parlando. C’era in lui qualcosa che non mi piaceva per nulla.

Tornai a rivolgermi a Matheson. Il frastuono e l’odore umido dell’umanità affollata pesavano su di me. «Non mi piace. Me ne vado.»

Matheson fece spallucce. «Come vuoi.»


Non potevo dormire.

Ero rimasto all’ospedale fin oltre mezzanotte, determinato a stancarmi al punto da poter dormire senza ricorrere all’Adonina. Una buona nottata di sonno, ne ero certo, avrebbe risolto i problemi fisici e provato che potevo fare a meno della droga.

Buttai giù mezzo panino ed andai a letto. Andava male. Presi cinquanta milligrammi di Seconal, e altri cinquanta mezz’ora dopo. Sentivo la spina dorsale sotto tensione come una linea elettrica, e dovetti tirar fuori una seconda coperta dal cassetto per riuscire a scaldarmi un po’. I piccoli rumori dell’appartamento – scricchiolii del pavimento, gorgoglii nelle tubazioni dell’acqua – mi facevano sobbalzare in modo incontrollabile.

Ero stato stitico per due giorni di fila, ma quella notte mi si sciolsero le budella.

Ero un prontuario ambulante dei sintomi della crisi da astinenza, e dopo soli due giorni di assunzione della droga. «Eccitabilità di rimbalzo», aveva detto Matheson. Col cazzo.

Era come se lo stomaco galleggiasse a mezz’aria, per via del Seconal, e le lenzuola sembravano di carta vetrata.

Cominciai a raccontarmi tutte quelle cose che la gente si dice in situazioni del genere. Cose del tipo come avrei potuto ottenere un vero aiuto, che avrei parlato a Matheson e mi sarei tirato fuori dalla faccenda per sempre. Sì, era la prima cosa da fare. Domattina.

Tutto questo mentre prendevo fiala e siringa e mi facevo un’altra dose.


Nella città erano comparse le auto. Erano rosse, blu e verde brillante e, dal mio punto d’osservazione sul cavalcavia, sembravano le automobiline con le quali giocavo da piccolo.

Me ne stetti lì in piedi più a lungo che mai, guardando le auto scivolare lentamente sotto di me senza riuscire a scorgervi nessuno dentro. Per la prima volta quel giorno non mi sentivo la febbre addosso, non avevo mal di pancia e avevo la mano ferma.

Il solo essere vivo procurava un acuto piacere fisico. Be’, almeno da questa parte della droga. Mi chiedevo quanto sarei dovuto sentirmi sottosopra dall’altra parte, prima che il malessere cominciasse a filtrare anche qui.

Alla fine camminai fino al parco. Gli alberi sfoggiavano ora un’uniforme fogliame verde brillante ed il terreno era coperto da un tappeto erboso compatto. Mi sedetti sulla stessa panchina, cercando la donna della volta precedente in ogni gruppo di passanti. Ovviamente non la trovai.

Questa volta tutti avevano una faccia, fattezze comuni che non appartenevano a nessuno che conoscessi nel mondo che frequentavo da sveglio. Mi sembrava, semplicemente guardandoli, di saper qualcosa di ciascuno di loro, avevo la sensazione di sapere come avrebbero reagito se avessi parlato con loro. Occasionalmente il loro sguardo si posava su di me per un attimo prima che passassero oltre.

Due uomini si sedettero su una panchina di fronte e cominciarono a giocare a carte. L’insolito mazzo che usavano aveva immagini stilizzate di galline, conigli, orsi. La logica del gioco mi risultava incomprensibile, tanto che non ero in grado di prevedere chi avrebbe fatto la mossa successiva.

Per la prima volta percepii come una perdita di controllo, la sensazione che stesse succedendo qualcosa al di là della mia comprensione. Divenne improvvisamente chiaro che la città era reale, per coloro che ci vivevano. Erano entità coscienti, non solo pupazzi messi lì per dar spettacolo ai miei occhi.

Quel pensiero mi metteva a disagio.

Mi alzai e passai oltre i giocatori di carte. Uno di essi mi diede un’occhiata veloce, quindi tornò alla sua occupazione. Voltò una carta sulla quale era raffigurato un cane, e quell’animale mi sembrò dotato di qualche significato imprecisabilmente sinistro.

Seguii la strada dirigendomi verso la casa dove avevo visto la donna dai capelli scuri. Le strade erano affollate e questa volta la gente sul marciapiede si accorgeva di me, scansandosi per evitarmi. Era come se fossi io a diventare più reale per loro, e non viceversa.

Non c’erano auto e il livello tecnologico della città nel suo complesso sembrava inferiore rispetto a quello della strada di scorrimento che avevo visto al mio arrivo. Incrociai dei carretti ed anche una specie di risciò, ma non c’era traccia di cavalli o di muli. Né, se è solo per questo, di uccelli, cani, gatti o insetti.

Quando giunsi alla casa della donna mi sedetti nuovamente ad attendere, ma ci volle solo un momento prima che la vedessi in piedi sulla porta. La sua bocca si muoveva per formare delle parole, o forse solo per via di un sorriso incerto. Fece un gesto strano con la mano, ruotando un polso nell’alzarla per poi lasciarla ricadere. Riuscii comunque a coglierne il senso e cominciai a dirigermi verso di lei. Attese finché le fui accanto, quindi si voltò ed entrò in casa.

La stanza d’accesso ricordava un museo moderno prima dell’esposizione delle opere d’arte. I muri erano bianchi, le finestre delle semplici aperture verso l’esterno, senza vetri né persiane. Gli arredi, come ogni altra cosa in quella città, erano bianchi e squadrati, privi di ornamenti. Le sedie erano cubi di un qualche materiale poroso; quello che sarebbe dovuto essere un divano o un letto costituiva una versione oblunga delle sedie.

La donna indicò il blocco più largo, ed io mi ci sedetti. Era più soffice di quel che sembrava, con la consistenza di un tipo di gommapiuma molto denso. Lei prese posto all’altra estremità, mezzo metro più in là. I suoi occhi erano cerchiati di nero e sembrava che si protendessero verso di me. Il naso era piccolo e curvo, come un esile becco, e le labbra sottili e spigolose.

«Chi sei?» chiesi. Era la prima volta che tentavo di parlare dall’altra parte, e le parole parvero esitanti nell’uscire.

Scosse la testa, agitando i capelli corti e intrecciati. La sua bocca si muoveva nuovamente, ma non sorrise. Estrasse da qualche parte un mazzo di carte come quello che avevano usato i due uomini nel parco. Cominciò a distribuirle, e quando alzai una mano per farle cenno di smettere mi ignorò.

«Non capisco questo gioco», le dissi. Scosse nuovamente il capo e finì di disporre le carte sul ripiano secondo uno schema a forma di stella a cinque punte. Ne voltò una sulla quale era raffigurata la testa d’un serpente.

Sembrava stesse aspettando qualcosa, così toccai uno dei mazzi. Mi fermò la mano e la tenne stretta. Sentii l’eccitazione montarmi lentamente nel petto e nel ventre. L’osservai in viso e non scorsi alcun segno di resistenza. Sporgendomi sulle carte ordinatamente disposte la toccai con l’altra mano e la baciai.

La sua bocca si mosse sotto la mia con una sorta di passione astratta. Mi alzai e cercai di abbracciarla, ma poggiò il capo contro il mio petto. Il suo tocco era lieve e vagamente elettrico, come se la sua pelle emettesse una leggera corrente.

Tentai di farla voltare verso di me, ma si sottrasse e cominciò a raccogliere le carte. Appena il mazzo fu completo, le sue mani parvero ingoiarlo. Mi toccò il viso e andò verso la porta.

Rimasi seduto nella frescura di quella stanza, ricordando le mattinate scure e nevose, la tetraggine dell’ospedale, lo squallore del mio appartamento, tutto con il distacco di chi pensa a quel che ha sognato la notte precedente. Quando quelle immagini cominciarono a presentarsi alla mente fui certo che il risveglio era prossimo. Invece non accadde nulla.

Me ne stetti là per quelle che mi sembrarono delle ore, quindi mi alzai per tornare in strada. Il tempo soggettivo che passavo nella città aumentava ad ogni dose della droga. Quando alla fine cominciai a scomparire mi sentivo come se fosse trascorsa un’intera giornata. Nel tornare non mi accorsi neppure della transizione: l’Adonina aveva rimosso i sintomi dell’astinenza e il Seconal che avevo già preso mi gettò in un sogno senza sogni.


«Oggi ho ricevuto le analisi», disse Matheson. Non ne sembrava felice, ma non era in condizioni tali da poter essere felice di alcunché. Aveva le orbite incavate, mentre la pelle delle sue mani sembrava traslucida. Se si fosse presentato al pronto soccorso con un aspetto di quel genere avrebbero immediatamente cominciato a nutrirlo per via endovenosa.

Andammo nella sala conferenze e chiudemmo la porta. Tirò fuori di tasca una busta e mi gett&oograve; alcuni fogli. Erano le solite tabelle e i soliti grafici di FarmaChimica – cromatografia liquida ad alta pressione, spettrografia agli ultravioletti, e così via. Ero tremante e depresso e non riuscivo proprio a concentrarmi su quei grafici.

«Hanno separato due frazioni», disse Matheson. «Una proteica e l’altra RNA.»

«Cosa significa?» chiesi.

«È un virus.»

«Cosa?»

«Un virus non contagioso e dalla vita brevissima. Gli agenti virali sono abbastanza piccoli da attraversare la barriera tra circolazione sanguigna e cervello per agganciare un qualche recettore. A quel punto iniettano l’RNA nelle cellule.»

«Santo cielo» dissi. Avevo in mente l’immagine di un virus così com’era raffigurata in uno dei miei libri di testo, all’epoca del liceo: accucciato su una cellula con lunghe zampe da ragno infilzate nel recettore e una testa bulbosa china a straziare col becco la parete cellulare per iniettare filamenti di RNA.

Ecco quel che stavo facendo al mio cervello.

Matheson continuò, «L’effetto narcotico sembra provenire dal rivestimento proteico, che rimane nel fluido cerebrospinale dopo che il virus ha completato il suo ciclo.»

Nauseato, chiesi, «Cosa fa l’RNA quando arriva là dentro?»

«Non ne hanno idea. Sulle analisi c’era una nota del tecnico che ha effettuato i test. Diceva che non ne erano previsti altri, ma che era personalmente interessato e che avrebbe conservato un campione per farne alcuni per conto suo.»

«Qualcosa deve aver catturato la sua attenzione.»

«Puoi scommetterci. Il trenta per cento degli amminoacidi del rivestimento proteico sono otticamente invertiti. Inoltre, l’azoto in quelli che sarebbero dovuti essere i residui di citosina è fuori posto. Quella robaccia è davvero bizzarra. È come se provenisse da un altro pianeta.»

Ebbi un’improvvisa visione di Smith, coi suoi occhietti porcini e la sua pelle untuosa. Nonostante avessi addosso abiti caldi per combattere l’ipotermia fui colto da un brivido.

«Matheson,» Dissi. Stava per andarsene. «Ieri notte ho tentato di farne a meno. Non ho potuto.»

Annuì distrattamente. «Quante volte l’hai usata? Tre? Andrà tutto a posto da sé. Vuoi che te ne procuri dell’altra?»

La sua disinvoltura mi spiazzò e non riuscii a rispondergli per un minuto buono.

«Allora?»

«D’accordo», risposi alla fine, «Dammene ancora.»


Quella sera lascia il posto di guardia alle dieci e trenta. Non ero in condizioni di dedicarmi ai pazienti ma, in qualche modo, ero riuscito a superare la giornata. La mia concentrazione era appena sufficiente ad occuparmi di quel che avevo direttamente di fronte e il mondo si era ristretto al momento ed al luogo nei quali mi trovavo. La sensazione che quel che mi circondava fosse immondo era peggiorata e nel momento stesso in cui il mio cervello tentava di dirmi che quella sensazione non corrispondeva alla realtà il resto della mia mente si ritraeva. Riuscivo a malapena a ricordare quel che era accaduto dall’ultima volta che avevo assunto la droga; tutto quello che provavo era una vaga consapevolezza che a fine giornata ne avrei avuto un’altra dose.

Avevo lasciato il riscaldamento acceso tutto il giorno e l’appartamento era come una sauna. Non mi presi neppure il disturbo di cenare, dal momento che qualsiasi cosa avessi mangiato se ne sarebbe comunque andato sotto forma di diarrea. Dopo la doccia asciugai il vapore dallo specchio del bagno e mi guardai.

Ero uno straccio, quasi come Matheson. La pelle penzolava dalla cassa toracica come un lenzuolo bagnato. Gomiti e ginocchia sembravano rigonfi a confronto delle braccia e delle gambe alle quali erano attaccati. Il volto era rigido ed inespressivo quanto una maschera di legno.

Mi asciugai ed andai a letto. La siringa vuota era ancora sul comodino dalla notte precedente. La guardai a lungo prima di decidermi a ricaricarla, quindi mandai giù due compresse di Seconal per non svegliarmi quando l’effetto della droga sarebbe svanito.

C’era un inizio d’ematoma all’interno del gomito, laddove la notte precedente avevo fatto un pessimo lavoro. Dovetti mettere il laccio all’altro braccio e farmi l’iniezione con la sinistra.

Virus, pensai guardando il sangue mescolarsi alla densa droga metallica. Fui assalito da un’ondata di disgusto, e strinsi le lenzuola nel pugno destro. Terminai l’iniezione.


Fu come risvegliarsi dopo un attacco d’influenza e scoprire che la febbre se n’era andata e che splendeva il sole. Me ne stavo in piedi al limitare del ponte a respirare l’aria fragrante che proveniva dal bosco. Lo squallore della giornata appena trascorsa sembrava essere evaporato nello spazio. Ricordavo tutto quel che era accaduto fino al momento in cui l’ago scivolava nel mio braccio, e tutto mi sembrava più chiaro di quanto era stato nel momento in cui accadeva realmente.

Ma quello era un altro mondo. Non riuscivo neppure a pensare ad esso come al mondo reale. Non più.

Invece di andare in città mi voltai e seguii il sentiero tra gli alberi. Ovunque erano spuntate foglie dall’aspetto estivo. Quando la città non fu più in vista il sentiero svoltò per correre parallelo alla strada, in discesa. Dopo poche centinaia di metri giunsi ad un torrente limpido e poco profondo. Entrambe le rive erano fitte d’alberi e dei massi generavano spruzzi e spuma. Era proprio dove sapevo che sarebbe dovuto essere, e mi spogliai per tuffarmi.

La donna apparve da qualche luogo imprecisato, tra gli alberi, e si sedette sulla riva a guardarmi. Tentai di convincerla a raggiungermi, ma sembrava non capire quel che volevo. Alla fine uscii dall’acqua e mi stesi accanto a lei. Mi toccò il ventre e le sue dita provocarono nuovamente quello strano senso d’eccitazione. La spinsi giù per baciarla ma, dopo un momento, si divincolò per sedersi poco più in là. Un senso d’estraneità nei suoi confronti mi trattenne dall’insistere, anche se la desideravo.

«Oggi puoi capirmi?» le chiesi. La voce mi sembrava più chiara del giorno precedente, ma ancora non la raggiungeva. Scosse il capo.

Quello che trascorremmo nei pressi del fiume mi sembrò un lungo pomeriggio estivo. A volte disegnava figure stilizzate nella sabbia; altre volte facevo un’altra nuotata. Poi, senza alcun preavviso, si alzò per andarsene. Mi vestii e la seguii ma era più veloce di me e quando giunsi al cavalcavia era già scomparsa.

Non sembrava importante. Tornai al parco e mi sedetti un po’ sulla solita panchina. Mentre mi rilassavo, seduto a guardare il cielo terso, mi accorsi che il tempo che passavo nella città era ora il solo tempo del quale mi rimanesse qualcosa. Se c’era qualche decisione da prendere, andava presa lì. La prima cosa che dovevo decidere era se volevo o non volevo smettere di prendere la droga.

La seconda questione era se sarei stato in grado di smettere.

Stavo ancora tentando di venirne a capo quando un guizzo improvviso catturò la mia attenzione. Qualcuno si era appena nascosto in una via laterale, e il movimento mi aveva allertato. La gente della città non si muoveva a quel modo.

Mi alzai e corsi verso il viottolo per dare un’occhiata. La gente che superai sembrava quasi risentita dal fatto che mi muovessi tanto in fretta e si voltava a guardarmi male. Ignorandoli, svoltai l’angolo appena in tempo per vedere una figura pesante scomparire dietro all’isolato successivo.

L’avrei riconosciuto ovunque. Era colui che Matheson chiamava Smith.


Lo rincorsi e lo vidi bussare ad una delle porte ai lati della strada. Si guardava attorno ansiosamente, così mi affrettai a nascondermi. Quando mi sporsi per una seconda occhiata era scomparso.

Andai alla finestra dell’edificio e sbirciai all’interno. Come tutte le finestre in quella città era solo un’apertura nel muro e mi ritrovai a guardare la schiena di Smith. Nell’ombra davanti a lui scorsi un abitante della città, abbigliato coi soliti pantaloni e camicia leggeri. Sul suo volto era dipinto un desiderio che non avevo mai visto in nessuno di loro. Fissava qualcosa nelle mani di Smith e mi sporsi per vedere cosa fosse.

Era una confezione di Adonina. In quel preciso istante l’uomo della città alzò gli occhi e mi vide. Smith seguì la direzione del suo sguardo, si girò pesantemente e mi piantò addosso quei suoi inespressivi occhi porcini.

Guardai Smith, poi l’Adonina, con la mente piena di interrogativi. Ma era troppo tardi per ottenere delle risposte. Potevo già sentire nelle gambe il pizzicore che significava che l’effetto della droga stava svanendo. Tentai di resistere, ma la forza che mi trascinava indietro era troppo forte. Un attimo dopo ero scomparso.


Matheson non si fece vivo alla riunione del mattino. Ero sottosopra per via del Seconal, ma avevo preso ugualmente del Valium per tentare di ridurre la tensione, il che mi aveva reso più calmo, senza però liberarmi della confusione mentale. Non riuscivo a scrollarmi di dosso l’illusione di lavorare in uno zoo in rovina, invece che in un ospedale. Continuavo a chiedermi perché nessuno pulisse le gabbie.

Di quel passo avrei presto avuto bisogno di qualcosa di più forte del Valium. Magari della Torazina.

No, mi dissi. Non la Torazina. Non sono pazzo.

Tra i sintomi di astinenza e la preoccupazione per Matheson, alla fine della riunione ero distrutto.

«Blake.»

Era il mio nome. Il suono di quella parola mi scosse tanto profondamente che sbattei le gambe contro il tavolo. Se non fosse stato per il Valium probabilmente mi avrebbe fatto completamente a pezzi.

«Sì?»

«Aspetti un minuto», mi disse il principale. «Devo parlarle.»

Miseria, pensai. Lo sa. Devono saperlo tutti.

«Dottore, ha un aspetto terribile», disse. «Che c’è che non va?» Aveva l’espressione di un vecchio medico benevolo, ma mi sembrava che sorridesse segretamente compiaciuto.

«Cazzate…» Lo dissi come una specie di mugolio, ma fui terrorizzato da quell’improvvisa perdita di controllo.

«Come?»

Mi schiarii la voce e riprovai. «Non dormo bene, questo è tutto. Non c’è niente che non va.»

«Ho sentito che avete avuto dei problemi personali, ultimamente», disse. Stava parlando di Sarah o di qualcos’altro? Cos’aveva in mente?

«Sì, alcuni» dissi. «Ma niente d’ingestibile.»

«Bene», disse. «La prendo in parola. Ma non possiamo lasciare che i nostri dottori s’aggirino con un aspetto peggiore dei loro pazienti. Si prenda cura di sé, d’accordo?»

«Sì.»

«Oh, Blake?»

«Sì?» Mi aveva richiamato proprio mentre mi stavo voltando e dovetti appoggiarmi al tavolo per sorreggermi.

«Sa qualcosa di Matheson? Non è ancora qui e nessuno ha sue notizie.»

Cercai di concentrarmi sui suoi occhi e di mantenere il controllo sul mio corpo. «No», risposi. «Non ne so nulla.»

Mi guardava in modo strano, e compresi che non mi aveva creduto. Era sulle tracce di qualcosa, ne ero certo, ma non sapevo di cosa si trattasse.

«Bene, Blake, è tutto.»


Matheson non rispose al telefono quando lo chiamai a casa. Continuai a riprovare per tutta la mattina, quindi andai a cercarlo durante la pausa pranzo.

Guidare fu uno strazio. La mia concentrazione era perfino peggiore del giorno precedente e dovevo lottare un secondo dopo l’altro per ricordare dov’ero e cosa stavo facendo. Il riscaldamento era al massimo ma non bastava ancora: sentivo spifferi immaginari filtrare dal parabrezza e dai finestrini. Il traffico era convulso e avrei fatto prima a piedi, ma non sarei riuscito ad abbandonare il calore dell’automobile. Appena si apriva un varco mi c’infilavo a tutto gas, tanto che rischiai due volte di finire sul marciapiede.

Alla fine parcheggiai a fianco dell’auto di Matheson. Prima di rendermi conto di quel che stavo facendo avevo già aperto la portiera e stavo cercando l’Adonina nel vano porta oggetti. Non ne trovai, così chiusi lo sportello di prepotenza e corsi su per le scale. Lo sforzo mi lasciò esausto e tremante di fronte alla porta del suo appartamento. Presi a suonare il campanello e a bussare con forza e, quando mi resi conto che nessuno sarebbe venuto ad aprire, forzai la serratura con un coltellino.

A parte alcuni dettagli sembrava d’essere a casa mia. C’era una sporcizia incredibile, un lettino sfatto in un angolo e un frigorifero sormontato da piatti sporchi in un altro. I muri erano occupati da librerie sovraccariche e il bagno era pieno di panni sporchi. Il pavimento intorno al letto era pieno di fiale d’Adonina vuote.

Sul materasso c’erano delle coperte ammucchiate, ed il frigorifero era pieno di cibo, ma Matheson era scomparso. E se mai c’era stata dell’Adonina nell’appartamento, era scomparsa anche quella.

Mi voltai per dare una seconda occhiata al letto, gettando le coperte sul pavimento. Sotto, steso tra le lenzuola, c’era un pigiama di lana disposto come se il corpo che aveva contenuto si fosse dissolto nell’aria. Legato strettamente attorno ad una della maniche c’era un laccio emostatico.


Al posto di guardia nessuno aveva idea di dove potesse esser finito Matheson. Chiamai il St. Mary per contattare Davis, l’unica altra persona dedita all’Adonina della quale fossi a conoscenza. Nessuno ne aveva mai sentito parlare.

Senza Matheson dovetti stare di guardia tutta la notte. Non ebbi mai la possibilità di scendere in birreria a cercare Smith, il che significa che non ebbi alcuna possibilità di procurarmi altra droga.

Ero ridotto all’ultima dose, ed ogni volta che ci pensavo ricadevo nel panico.


Arrivai a sera annaspando come chi sta per affogare. Caddi in ginocchio e poggiai la testa contro la pietra fresca del cavalcavia.

Era un sollievo essere nuovamente in grado di pensare. Ricordavo parti della giornata – la scomparsa di Matheson, il confronto alla fine della riunione – e mi sembrava incredibile esser riuscito a superarla. Smisi di pensarci, come si fa per un brutto incubo, e passai ad altro.

Quel che mi preoccupava di più era aver visto Smith nella città. Era la prima volta che, da questa parte, mi imbattevo in qualcuno del mondo reale. Se si fosse trattato di Matheson, dei miei genitori o di Sarah avrebbe potuto avere un senso, ma avevo come una premonizione che Smith non si trovasse là per qualche associazione che avevo avuto con lui nell’altro mondo. Ero certo che in qualche modo egli facesse parte della droga, che fosse parte integrante delle informazioni trasmesse dall’RNA.

Dovevo esserne certo. Andai in città per cercarlo.

Per la strada potevo percepire una nuova sensazione. Ovunque andassi, per nessuna ragione specifica, sentivo di esser diventato il centro dell’attenzione. La gente sembrava parlare di me alle mie spalle e c’era come un mormorio apertamente ostile dietro di me.

La casa dove avevo visto Smith ora era deserta. Tagliai per il centro della città, dirigendomi verso la casa della donna, ma anche quella era vuota. Erano scomparsi perfino i mobili.

Tornato al parco, me ne stetti in piedi a guardar la gente passare. Le strade erano affollate, ora, e potevo a malapena camminare senza finire addosso a qualcuno. Ogni volta che mi capitava di toccare uno di loro sentivo la leggera scossa del contatto, come m’era successo con la donna. Tutti coloro che toccavo si ritraevano e si voltavano a bisbigliare con qualcun altro.

Dopo alcuni minuti, stanco d’attendere, ripresi a vagare per le strade. Non so da quanto tempo stavo camminando quando lo vidi, ma sembrò quasi che mi stesse aspettando. Era oziosamente appoggiato contro la parete d’un edificio, apparentemente da solo, e quando giunsi ad un isolato da lui si avviò per andarsene. Non diede segno d’avermi visto, ma ero certo che mi avesse notato. Si manteneva ad un isolato di distanza da me e a volte sembrava volesse voltarsi per guardarmi senza però mai decidersi a farlo. Quando acceleravo un po’ lui faceva altrettanto, senza neppure preoccuparsi di guardare indietro.

Per un po’ ci allontanammo dal centro città, in direzione della casa della donna. Poi svoltò a destra per ritornare verso la strada principale, quindi nuovamente a destra, tornando indietro.

Quando ripassammo dal parco ebbi la sensazione che stesse accadendo qualcosa. Sul marciapiede di fronte a noi c’era meno gente, e da dietro proveniva un mormorio costante. Mi fermai. Poco più avanti, Smith si appoggiò ad una parete ad aspettare. Ripartii nella sua direzione, quindi mi voltai di scatto.

Trenta o quaranta cittadini mi stavano seguendo. Tutti indossavano ampi abiti bianchi ed erano pallidi e ben pettinati. L’espressione intensa dipinta sul loro volto mi terrorizzò. Si bloccarono appena mi voltai e presero a parlare tra loro. Non potevo sentire le loro voci, ma tenevano lo sguardo fisso su di me. Quando mossi un passo verso di loro mantennero la posizione, ma quando mi ritrassi avanzarono lentamente verso di me.

Scattai verso Smith, ma fu più agile del previsto e sfrecciò lungo l’edificio. Lo rincorsi, sentendo il passo pesante della folla dietro di me.

Avevamo quasi raggiunto il cavalcavia. Smith inciampò per la stanchezza e si accasciò nei pressi di un muro di contenimento, voltandomi la schiena. Mi misi al passo e mi fermai alle sue spalle.

«Smith?» chiamai. «Si volti.» Mi ignorò. Stavo per toccarlo, quando qualcosa di inquietante nel suono della folla mi indusse a voltarmi.

Avanzavano come un esercito di zombi in un film horror. Il loro sguardo piatto ed inespressivo era fisso su di me, ed ondeggiavano nella mia direzione con una determinazione che mi terrorizzò. Mi ritrassi istintivamente, indietreggiando verso il cavalcavia. Erano ormai a pochi metri quando udii un altro rumore provenire da dietro. Mi voltai e vidi un secondo gruppo uscire dal bosco.

Divenni improvvisamente consapevole di quel che intendeva Matheson. La mia voglia di risposte scomparve, e tutto quel che volevo era andarmene da lì.

Incrociai le braccia sul petto, chinai il capo e serrai strettamente gli occhi.

Quando li riaprii stavo scomparendo mentre la folla si dissolveva nel buio.

Mi ritrovai nel mio letto, bruciante di febbre. Avevo la pelle rovente e tesa, la gola riarsa come il fondo d’un fiume in secca. Sedetti con l’intenzione d’alzarmi per bere, ma non ce la feci. Il sonno mi piombò addosso come una valanga calda.


Il promotore della Sandoz aveva allestito un banchetto fuori dalla Sala Emergenze e distribuiva dolci e caffè per pubblicizzare l’Idergina che si diceva aiutasse nei casi di demenza senile. Non era il mio problema. Gli chiesi dei campioncini di Mellaril, cercando di trattenere un incessante battito di denti. Trasse una scatola stretta dalla borsa e mi diede un blister da dieci dosi.

Le compresse erano verde pallido, da 100 milligrammi, destinate agli psicotici in fase avanzata. Non ero pazzo, lo sapevo bene, ma i sintomi erano simili. Solo il Seconal che avevo ancora in circolo mi manteneva calmo quanto bastava per rapportarmi con quel rappresentante dal taglio a spazzola in abiti eleganti. Appena fui fuori dalla sua portata, aprii il blister e mandai giù a secco una delle pillole.

Alle otto ero rilassato e l’impressione di sporca decadenza iniziava a scomparire. Riuscii a fare una relazione vagamente coerente e perfino a terminare senza veri problemi il giro delle visite mattutine.

Quella mattina chiamai due volte a casa di Matheson, ma non ottenni alcuna risposta. Né, del resto, mi aspettavo che qualcuno rispondesse. Combattevo contro me stesso per trattenermi dal pensare che ero completamente a secco di Adonina.

All’ora di pranzo non riuscivo a pensare ad altro. Presi altri cento milligrammi di Mellaril e li buttai giù col caffè bollente.

Durante le ore tranquille del pomeriggio andai all’armadietto di Matheson, nella sala conferenze. Non riuscendo a trovar nulla, cominciai a tirar fuori i suoi libri e le sue carte, sbattendoli sul pavimento alla disperata ricerca della droga. Fosse pure una sola dose.

«Che sta facendo?»

Voltai su me stesso per trovarmi di fronte allo sguardo pietrificato della capo sala. Ebbi come un’improvvisa visione di me stesso: arrossato, occhi sbarrati, guance incavate, mani tremanti e un irrefrenabile battito di denti.

La ignorai, rigettando i fogli nell’armadietto e sbattendo lo sportello. Passandole praticamente sui piedi raggiunsi l’atrio, cercando di trattenermi dal correre mentre mi dirigevo verso il bar. Grondavo sudore, ma era come se avessi del ghiaccio nello stomaco e dovevo assolutamente bere qualcosa di caldo.


Quel pomeriggio vidi una lettera nella cassetta delle lettere di Matheson. Il mittente era FarmaChimica, così la misi in tasca e, non appena mi fu possibile, mi chiusi in bagno per aprirla.

Proveniva dallo stesso tecnico che aveva effettuato la prima analisi. Aveva somministrato il resto dell’Adonina a dei topi e proprio non si aspettava i risultati ottenuti.

«Sono certo», aveva scritto, « che questa droga obbliga le cellule preposte alla formazione reticolare a sintetizzare una transcriptase inversa. La frazione delle cellule di ratto estratta dal sistema d’attivazione reticolare conteneva non solo il DNA virale, ma anche una gran quantità di DNA radicalmente alterato.»

Solitamente l’RNA produce delle proteine ma, se quel che scriveva l’analista era corretto, questo RNA stava sintetizzando del DNA nuovo ed anormale. Dio solo sapeva cosa quel DNA atipico stava facendo alle cellule del mio cervello, o quale effetto avesse sulle mie percezioni.

«Si raccomanda con la massima priorit` di non sommistrare questa sostanza a soggetti umani. Questa droga, oltre ad assumere il controllo del metabolismo cellulare, provoca una dipendenza estremamente elevata.»

E allora? Appallottolai la lettera e la gettai.


Alle sei in punto mi facevo strada tra la folla dell’happy hour, in birreria, cercando Smith. Dovetti gridare per farmi sentire dal barista. Finita la descrizione, questi rispose che non aveva idea di chi fosse colui del quale stavo parlando. Mi diede del caffè, ma non riuscii a mandarne giù più d’un sorso. Quando posai la tazza sul bancone c’era un bimbo accanto a me.

«L’ho visto», disse il bimbo.

«Dove?»

«A volte viene qui. La notte scorsa, ad esempio, era qui e parlava ad un mio amico. Mi pare abbia detto che domani sarebbe tornato.»

«Domani?» Fu come un pugno nello stomaco.

«Così ha detto.»

Lo lasciai ed uscii tra la neve.

Tenni duro più che potei, camminando attorno all’ospedale in un cerchio che comprendeva ogni bar, ristorante e pizzeria del circondario. In breve il freddo ebbe la meglio, facendomi tremare tanto da rendermi impossibile perfino camminare. Sotto una neve fitta e svolazzante guidai fino a casa, pensando ad una città nella quale non esisteva l’inverno.

Presi altri tre Mellaril e mi stesi tremante sotto le coperte, aspettando che facessero effetto. Il ticchettio della neve contro la finestra impiegò un’eternità a sfumare ma, più o meno verso l’alba, scivolai in un sonno leggero.

Sognai la città senza però essere realmente là. Era come guardarla attraverso il fondo d’una barca di vetro, o attraverso una bolla di plastica contro la quale potevo premere fino a far quasi passare le mani senza però mai riuscirci veramente. Mi dava tanto conforto quanto la foto d’un’amata ormai perduta.

La mattina seguente mi diedi malato e rimasi a letto, intontito dalle droghe e distrutto da un senso di incolmabile perdita. Ad un’ora imprecisata del pomeriggio, nella luminosità soffusa riflessa dalla neve all’esterno, mi alzai e mi vestii.

Sebbene li indossassi sopra alla biancheria pesante e ad un altro strato d’abiti, la camicia ed i pantaloni pendevano flosci addosso a me. Quando mi muovevo, le giunture scricchiolavano. Avevo un volto più segnato di quello d’un detenuto appena fuggito da Auschwiz.

Dovetti prendere l’auto per raggiungere la birreria; sebbene fosse vicina, non potevo andare a piedi con un freddo simile. Entrai barcollando, mi sedetti in un angolo appartato e ordinai del caffè. Buttai giù un Mellaril con la prima tazza e cominciai ad aspettare.

Attesi per un tempo infinito, più di quanto potessi tenere il conto. Quando la tazza era vuota qualcuno la riempiva ed io riprendevo a sorseggiare fino a svuotarla nuovamente.

Fintanto che me ne stavo fermo con indosso guanti e cappotto stavo abbastanza bene, ma il mondo sembrava andare e venire. Non ricordavo quand’era stata l’ultima volta che avevo mangiato qualcosa.

Quando finalmente Smith arrivò ero quasi al delirio, incapace di comprendere se quel che vedevo fosse la realtà o l’ennesimo sogno indotto dalla droga. In qualche modo, il locale s’era riempito, e Smith stava per scomparire tra la folla.

Mi avventurai sui miei piedi incerti per seguirlo.

«Ho bisogno di parlarle», bisbigliai seccamente.

Si voltò lentamente e quei suoi piccoli, roventi occhi porcini si fissarono su di me, incenerendomi come avevano già fatto in passato, in qualche altro luogo che quasi non ricordavo.

«Prego?»

«Ho bisogno di parlare con lei. Fuori.» Dovetti appoggiarmi al muro ma, a parte quello, ero a posto.

«Di che cosa?» Il suo volto era inespressivo, liscio e duro come argilla nero-bluastra.

«Adonina», dissi.

Smith si rivolse alle due persone che erano con lui e mormorò: «Scusatemi. Torno tra un secondo.»

Gli feci strada verso l’uscita posteriore. Potevo a malapena sentirmi i piedi e dovevo muovermi lentamente per mantenere l’equilibrio. Uscimmo passando dalla porta antincendio e l’aria gelida si chiuse su di me come l’acqua d’un lago ghiacciato.

«Bene, ora vuol dirmi cosa vuole?» La voce di era vuota ed attutita, quasi incorporea.

«Adonine», gracchiai. «Sono un tossicodipendente. Ho bisogno d’aiuto.»

Inclinò lateralmente il capo. «Non so di cosa sta parlando.»

«Adonina!» gridai. «La droga! Come quella che ha dato a Matheson! Come quella che ha dato a Davis!»

«Matheson?» disse, con una sorta di cortese curiosità. «Davis? Dovrei conoscerli?»

«Non mi menta, bastardo!» gridai avvicinandomi. «Sa benissimo di cosa sto parlando. Me la dia!»

Spalancò gli occhi, spaventato. Afferrai il bavero del suo cappotto e sentii una scossa improvvisa. Era una sensazione che avevo già provato in qualche sogno. Si scrollò le mie mani di dosso.

«Stia alla larga da me», sibilò. Quando si volse per andarsene, sulla sua testa calva comparvero gocce di sudore.

«Basta con le stronzate, Smith!» urlai. «Mi dia la droga!»

Mi protesi per afferrarlo nuovamente, ma lo mancai e caddi nella neve ammucchiata contro l’edificio. Smith si guardava attorno nervosamente ma non poteva andare da nessuna parte perché bloccavo la sua unica via di fuga. Si tirò indietro fino a ritrovarsi con le spalle al muro, in fondo al vicolo.

Lo afferrai nuovamente e cominciai a scuoterlo. «La droga, Smith! Mi dia la droga!»

Smith urlò, e mi allontanò con un movimento improvviso. Battei il capo sul pavimento rimanendone stordito per un istante. Carponi, lo cercai nuovamente.

E raggelai.

«No», bisbigliai. «No, no, non può essere…»

Ma era proprio così.

Smith stava chiudendo gli occhi ritraendosi come un animale in trappola. Quindi, molto lentamente, incrociò le braccia e abbassò la testa sul petto.

Sembrò scintillare per un momento nella luce grigiastra della sera, quindi scomparve.

Lewis Shiner

 

© 1981 by Mercury Press, Inc. First published in The Magazine of Fantasy and Science Fiction, April 1981.
Technical assistance by John Swann of the University of Texas College of Pharmacy
Traduzione italiana di Aldo Carpanelli